I volti dell’attesa
Che fosse estate o inverno, non faceva differenza: all’uscita dal lavoro era già buio; la strada aveva sempre lo stesso colore giallo-bruno dei lampioni e le case, inespugnabili nella penombra, a malapena concedevano al mondo quei piccoli spicchi rettangolari di vita illuminati in disordinata intermittenza.
A dispetto del suo nome, Gioia non si definiva una persona allegra e felice, ma conduceva comunque un’esistenza che tutto sommato la soddisfaceva: si occupava di progetti umanitari, collaborava con le principali organizzazioni non governative presenti sul territorio, aveva contatti con ogni angolo della Terra. Conosceva variegate facce dell’umanità o, per meglio dire, era a contatto con quelle che il più delle volte vengono taciute e messe in un angolo, quelle facce che si preferiscono nascondere come se ciò bastasse alla nostra coscienza collettiva per annullarne l’esistenza.
Era per questo che Gioia raramente si sorprendeva a sorridere.
Il suo principale strumento di lavoro era il telefono, oltre che il PC, e non aveva mai fatto un conto approssimativo del numero dei contatti quotidiani che riusciva a intrattenere all’interno di una giornata lavorativa. Conosceva infinite sfumature di voce ed era in grado di interpretarle tutte prevedendo sempre in anticipo l’esito di ogni colloquio ma era diventata esperta anche nell’individuare, dietro gli stili apparentemente asettici di una mail, le reali intenzioni dello scrivente, fosse solo per la posizione di una parola, per l’uso della punteggiatura, per la scelta di un lei informale o di un tu confidenziale e complice.
La sua memoria era affollata di indirizzi e numeri telefonici. Ciò che le mancava erano corpi, volti, sguardi, strette di mano. Era talmente abituata a farne a meno, che nel tragitto che ogni sera la portava verso casa, giocava con leggerezza a indovinare la tipologia di persone presenti aldilà dei vetri illuminati che le indicavano la strada, come fossero segnali rassicuranti di un percorso senza errori: non erano sempre le stesse e per lo più, vista l’ora tarda, si riferivano a cucine, al massimo a camere da letto; in questo caso, era facile riconoscere il tipo di stanza in quanto la luce che filtrava all’esterno era molto più fioca, simile a quella di un habat-jour, o addirittura erano flash a intermittenza che mutavano di intensità al ritmo delle immagini di uno schermo televisivo dal quale evidentemente provenivano. A Gioia non piaceva soffermarsi su questo tipo di luci, non piaceva giocare al suo personalissimo “Indovina chi?” rispetto a situazioni fin troppo evidenti: dietro quelle fragili barriere di vetro non solo la luce era fioca ma anche la vita: sicuramente, inequivocabilmente; quel tipo di vita che non è più in grado di difendere un giorno ormai agli sgoccioli rimanendo aggrappata ad esso in ogni modo, nell’illusione di prolungarlo a oltranza; quel tipo di vita in cui ci si concede anticipatamente alla notte perché ci trasporti il più velocemente possibile verso un domani che non ha un passato degno da ricordare; quel tipo di vita che a lei sembrava di conoscere e che non aveva nulla da svelare.
La incuriosivano, invece, e tanto, quelle luci più decise che spesso si arricchivano di sfumature colorate così come variopinti riescono a essere solo certi lampadari da cucina; se i riflessi tendevano al rosso, Gioia non aveva dubbi: all’interno si aggiravano persone di mezza età che avevano arredato la loro casa secondo i dettami di una moda che negli anni ’60/’70 metteva sul mercato quei punti luce pendenti, muniti di cappelli, non di rado in ceramica, sui quali facevano bella mostra di sé decorazioni colorate attinenti al mondo della frutta e degli ortaggi. Immaginava spesso una donna dai movimenti sicuri ma non più rapidi, intenta a riassettare una tavola con i resti della cena, mentre seduti intorno ad essa un uomo e un ragazzo discutevano con passione di sogni e progetti.
Quando le luci si presentavano bianche e più omogenee, le capitava invece di credere che si trattasse di una cucina in stile moderno, voluta e abitata da persone giovani, magari da una coppia che aveva optato per faretti incastonati al soffitto e uniformemente distribuiti; li vedeva seduti al loro tavolo nero, minimale, allungabile e funzionale, intenti a svelare reciprocamente quanto ancora non conoscevano dei rispettivi mondi, oppure a pesare le parole affinché quello che ancora non era emerso restasse opportunamente nascosto senza limiti di tempo, perché forse era meglio, perché uscire completamente allo scoperto può essere pericoloso, perché a volte decidiamo noi che cosa mostrare agli altri e soprattutto quanto vogliamo che gli altri non sappiano mai di noi.
Questa era la compagnia che si concedeva Gioia ogni sera mentre rincasava e nel chilometro e mezzo circa che la separava dal posto di lavoro, riusciva a intrufolarsi virtualmente nella vita privata di due, massimo tre famiglie.
Un venerdì sera di giugno caldo e appesantito dallo smog della città, a pochi portoni dal suo, fu catturata da un profumo intenso che le risvegliò ricordi sbiaditi; proveniva da un appartamento al pianterreno con la finestra della cucina ad altezza d’uomo: era spalancata e al davanzale era poggiata mollemente una giovane donna che ingannava il tempo fra una spira e l’altra del fumo di una sigaretta.
“Che buon profumo”
disse Gioia non riuscendo a trattenere quella che era un’esclamazione che le si era impetuosamente materializzata in gola. La donna, senza apparente sorpresa, non si mosse e continuando a seguire la scia del fumo o forse dei suoi pensieri replicò stancamente:
“È la salsa di melanzane che piaceva tanto a Maurizio, mio marito. Gliela preparavo spesso, di venerdì, quando rientrava in città dopo la settimana passata su e giù per l’Italia alla guida del suo camion. Poi, un venerdì, non è più tornato…ma io continuo ad aspettarlo, non si sa mai”.
Gioia proseguì e il suo passo si fece più incerto; il gioco era finito e nella sua mente tornarono nitidi i luoghi dell’infanzia, la campagna di Agrigento, l’odore della terra, la casa che divorava il sole e il volto di sua madre che a trentacinque anni chiese al Tempo di pietrificare il suo volto così che al suo ritorno Salvatore, il marito, potesse ritrovarlo come quel mattino, quando uscì di casa senza più farvi ritorno.
La sua memoria era affollata di indirizzi e numeri telefonici, ma quella sera Gioia aveva dei volti da ricordare, i volti dell’attesa che si somigliano tutti un po’, come quel profumo di melanzane così simile a quello annusato tante volte sotto il sole della sua infanzia.