La casa della memoria
Le esperienze possono essere condivise, i ricordi no. Frida ne era profondamente convinta e in un certo senso felice perché, se è vero che insieme ad altri si possono vivere situazioni e frammenti di vita, è altrettanto vero che quegli stessi attimi vengono filtrati diversamente: ciascuno ne assorbe quanto può o quanto semplicemente vuole.
Così, giorno dopo giorno, si era costruita una Casa della Memoria in cui custodire gelosamente non tanto il passato quanto piuttosto ciò che di esso era penetrato nei suoi occhi, a volte incompleto, deformato, oppure ingigantito, colorato e comunque soltanto suo.
Aveva origini tedesche Frida e il suo nome ne era inequivocabilmente una chiara testimonianza; sua nonna era nata a Ulm ma poi aveva conosciuto Antonio, un giovane italiano che le aveva fatto battere il cuore, e la sua vita aveva preso un’altra direzione; aveva deciso di non separarsi più da lui e lo aveva seguito ovunque, all’inizio assecondando la sua voglia di avventura e di scoprire il mondo, qualche tempo dopo accettando di stabilirsi a Gaeta su quel litorale laziale assai più caldo e luminoso del suo paese.
Non fu proprio una storia a lieto fine: le differenze avevano preso presto il sopravvento sulla passione e dopo diversi tentativi di tenere insieme un legame ormai a brandelli, la nonna aveva deciso di tornare in Germania, con amarezza ma senza rimpianti perché, finché era durato, quell’amore le aveva davvero scaldato il cuore. Un dolore penetrante l’avrebbe comunque accompagnata per sempre: a Gaeta non lasciava solo un compagno ma anche il padre della sua piccola Anita, così tanto voluta e amata. Era stata una decisione difficile ma ponderata quella di lasciare che la bambina crescesse in Italia: la famiglia di Antonio le avrebbe assicurato l’affetto e la protezione di una famiglia che lei aveva smarrito ormai da troppo tempo. L’accordo era comunque che la bambina trascorresse in Germania un mese di vacanza e da allora, a luglio, la vita tornava ad avere un sapore più intenso e questa abitudine rigenerante non aveva mai avuto un’interruzione, anche quando Anita divenne una donna, anche quando divenne madre, anche quando scelse di chiamare la sua bambina come la nonna: Frida, qualcosa di più che un nome, forse il marchio di un legame che non si era mai esaurito e che anzi era cresciuto e si era rinsaldato nel perpetuarsi delle abitudini e nella Casa fantastica della Memoria.
Luglio era così diventato sinonimo di calore, di affetti, di risate, di storie fantasiose e… di grano saraceno! Sì, di grano saraceno, che si era impresso negli occhi di Frida bambina, in quelle pianure che le sembravano sconfinate, ricoperte di spighe brune che si intrecciavano alle storie che la nonna inventava per lei durante le passeggiate in bicicletta in mezzo ai campi coltivati: nella Casa della Memoria, così, occupavano posti vicini una ruota enorme che girava con ritmo regolare sotto i suoi piedi, un seggiolino comodo che le dava un senso di protezione, la voce della nonna che le giungeva da dietro la nuca, il vento fresco che le faceva arricciare il naso e socchiudere gli occhi, e il giallo sfocato che riempiva per intero il suo campo visivo. Anche stavolta, però, la vita era riuscita a scrivere la parola fine e con la morte della nonna terminarono le storie inventate, le passeggiate in bicicletta, il vento, le distese di grano.
In Italia Frida imparò a rinunciare all’appuntamento tanto atteso con il mese di luglio e con pazienza entrò giorno dopo giorno in una quotidianità meno emozionante ma serena: aveva cura dei pochi legami affettivi che le sembravano importanti, tesseva relazioni cordiali con chiunque, anche lei, come capita a molti, non amava troppo il lavoro che svolgeva ma in compenso riusciva a ritagliare per sé del tempo prezioso per coltivare la sua passione: disegnare.
Le pareti della piccola casa di Gaeta ereditata dal nonno Antonio erano quasi del tutto ricoperte di tele colorate di ogni misura, le cornici erano quasi tutte semplici, lineari e di legno scuro ma da ognuna di esse risaltava sempre, a prescindere dal soggetto, la carezza di un giallo avvolgente che dominava e si espandeva; da questa tinta Frida diceva di attingere luce anche in quelle giornate grigie di pioggia o nelle sere attraversate da fugaci malinconie.
Una mattina, durante un rapido giro al supermercato per la consueta spesa settimanale, i suoi occhi si posarono su una confezione di farina che non aveva mai notato; l’involucro era di uno smorto color grigio-panna, con tratti stilizzati era disegnata su di esso, in diagonale, una coppia di spighe parzialmente sovrapposte che terminavano lì dove compariva la scritta “Farina di grano saraceno”. Non esitò a metterlo nel carrello in un gesto impulsivo che evidentemente traeva origine da qualcosa di remoto e profondo. Quando rientrò la sistemò nella dispensa accanto ai barattoli di pomodori secchi conservati dall’anno precedente che un tempo erano il vanto di nonno Antonio.
Luglio era appena cominciato; le ombre del pomeriggio si stavano pian piano allungando e i colori dell’estate si arrendevano all’avanzare di un fresco imbrunire: Frida uscì in cortile e si diresse verso il pino dal quale riusciva a intravedere il mare; si mise a sedere con la schiena poggiata al tronco ruvido e con le mani raccolse quei pochi pinoli che il vento dei giorni passati aveva fatto cadere troppo presto.
Quella era l’ora in cui giungeva più forte il profumo salmastro: con un sorriso impercettibile cercò di annusare insieme ad esso tutti quegli aromi che in quella giornata particolare si erano mescolati tra loro disegnando per lei il quadro più vero e completo del suo passato.